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Capitolo 15. NON C'È
RITORNO:
LA CONDANNA D'OCCIDENTE. |
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L'ipotesi che consideriamo più
viabile e positiva è la seconda: questa opzione, vale a dire
la modificazione del sistema monetario, diventa una possibilità
ed una necessità immediata (per uscire dalla "storia
ufficiale" iniziata con la moneta anonima, la scrittura, la
corruzione e l'imperialismo), con la speranza che aiuti a camminare
verso la prima opzione (smonetizzazione e smercantilizzazione) in
un altro stato storico per il momento improbabile a medio termine.
Il fallimento del ritorno al comunismo-collettivizzazione
attraverso la forza è assai più drammatico ed eloquente
di quanto non lo sia il fallimento del ritorno ai comunitarismi
volontari d'ispirazione cristiana o hippie. Nei due casi c'è
stata una confusione tra "comunità di origine etnica",
fortemente endo-strutturate, e "comunità volontarie"
più o meno liberamente "co-elette". La collettività,
se si costituisce liberamente, può giungere a comunitarizzarsi
etnicamente/eticamente come culminazione di lunghi processi. Purtroppo,
né la libertà, nel caso comunista, nè un margine
di tempo sufficiente nel caso comunitarista hanno accompagnato questi
tentativi di "ritorno alle origini" compiuti in questo
secolo ad Occidente.
Privo di comunità reali, radicate e strutturate
attorno al dono reciproco al proprio interno, ed al baratto con
l'esterno, l'Occidente è condannato a funzionare grazie alla
specializzazione produttiva su una grande scala di popolazione.
E di fronte a questo dato, tanto la prima alternativa (smonetizzazione)
come la terza (la moneta non costituisce un tema-chiave) possono
divenire illusorie o irresponsabili. Continuare a considerare come
si è fatto fino ad ora che il tipo di moneta non è
un elemento chiave significa, di fatto, accettare le cose cosí
come sono e privarsi di un possibile strumento per modificarle.
Dappertutto, al nord come al sud, ad est e ad ovest,
sotto il capitalismo e sotto il socialismo, la corruzione (più
o meno sottile) è onnipresente, e gli squilibri monetari
di uno Stato si ripercuotono nel bene e nel male sull'economia di
tutti gli altri. Il divorzio tra il denaro e la produzione reale
risolleva o precipita la vita di milioni di persone, condannandole
alla fame o all'opulenza.
Cominciano ad esserci persone di tutti i continenti
che, a partire dalla loro esperienza di vita non occidentale o da
una ricerca antropologica, mettono in dubbio che la civiltà
occidentale sia poi cosí benefica come la si è voluto
presentare fin'ora, non solo per le altre culture ma persino per
i suoi stessi figli. Cominciano a sorgere voci che dimostrano la
necessità di un cambio di direzione e di senso se non vogliamo
continuare per i cammini della distruzione. Cominciano a sentirsi
voci che denunciano l'incapacità della cultura occidentale,
abbagliata dai suoi miracoli tecnologici, per comprendere i contributi
e le dinamiche delle altre culture...
"L'economicidio consiste nel distruggere le
basi economiche di reciprocità delle comunità, vuoi
per imporre la privatizzazione, vuoi per imporre la collettivizzazione.
Questo economicidio è oggi l'arma più segreta, e probabilmente
la più efficace, dell'Occidente contro il "Terzo Mondo"
(contro i 2/3 del mondo)."
"La collettivizzazione [...] sopprime l'individualizzazione
della casata, il prestigio o la responsabilità personali,
e per tanto ostacola qualunque forma di competizione tra gli uni
e gli altri per produrre di più e meglio. Agli individui
non resta altro, come motivazione alla produzione, che l'autoconsumo
biologico. La collettivizzazione costituisce dunque una dinamica
di sottosviluppo delle comunità di reciprocità. Il
suo fallimento è evidente nelle società contadine
dell'(ex-) Unione Sovietica, dell'(ex-) RDA, della Polonia, della
Cecoslovacchia, del Vietnam, del Nicaragua, della Cina, almeno fin
quando quest'ultima non riabilitasse la coltivazione familiare e
comunitaria."
"La confusione tra comunità e collettività
è definitiva e altrettanto grave quanto la confusione tra
carità e dono, in cui cadono la maggior parte di organizzazioni
non governative di aiuto al Terzo Mondo."
"Il terzomondismo d'ispirazione marxista non
funziona molto meglio dell'aiuto capitalista al Terzo Mondo. Uno
utilizza lo sviluppo come cavallo di Troia per distruggere l'economia
del Terzo Mondo, l'altro si rifiuta di riconoscere il dono -il regalo-
e la reciprocità come fondamento di un altro sistema economico,
differente dal cambio generalizzato." "Entrambi mostrano
di obbedire alla logica di [un mercato di] scambio, mentre è
sulla reciprocità che si fonda la comunità."
Riconoscere il diritto all'esistenza di altre forme
di vivere, stabilire relazioni e produrre non è solo un diritto
che qualunque occidentale sostiene nella Dichiarazione dei Diritti
Umani, ma diventa anche una possibilità di ritrovare cammini
perduti ad Occidente: la misura delle cose. L'etnocentrismo occidentale
acceca nella maggior parte delle osservazioni la nostra presunta
oggettività. Non solo dobbiamo rispettare le altre culture
per coerenza con la nostra tradizione formale; la loro vita, soprattutto,
può aiutarci a relativizzare la nostra opulentemente miserevole
civilizzazione.
"Il
fatto è che all'opulenza si può giungere per due cammini
differenti. Le necessità si possono soddisfare facilmente
o producendo molto, oppure desiderando molto poco. La concezione
più diffusa, allo stile di Galbraith, si basa su dei presupposti
particolarmente appropiati all'economia di mercato: che le necessità
dell'uomo sono grandi, per non dire infinite, mentre i suoi mezzi
sono limitati, per quanto possono aumentare. È cosí
che il divario che si produce tra mezzi e fini può venire
ridotto tramite la produttività industriale, almeno fino
a determinare che i "prodotti di prima necessità"
tornino ad essere abbondanti. Esiste però anche un cammino
zen verso un'opulenza che parte da premesse diverse dalle nostre:
che le necessità materiali umane sono finite e scarse, ed
i mezzi tecnici inalterabili però, per regola generale, adeguati.
Adottando la strategia zen, un popolo può godere di un'abbondanza
materiale incomparabile [...] con un basso livello di vita."
"
È questo, a mio parere, il miglior modo
di descrivere i cacciatori-raccoglitori, e quello che aiuta a spiegare
alcune delle condotte economiche più curiose, come per esempio
la "prodigalità", vale a dire la tendenza a consumare
rapidamente tutte le riserve di cui dispongono come se non dubitassino
neppure per un momento di poterne ottenere di nuove." Liberati
dalle ossessioni della scarsità, il non avere mai fretta,
il "lavorare" tra le 20 e le 30 ore alla settimana, l'avere
molto tempo libero per dormire, per conversare, per farsi visite,
per danzare e mangiare in comune, il non-esaurimento -irreversibile-
dell'ambiente naturale, il valore della persona, considerato più
importante della semplice copertura delle necessità materiali,
l'assenza di fame cronica.... sono le principali caratteristiche
di questo modo di vita considerato dall'Occidente come "primitivo"
ma anche, nello stesso tempo, come "paradiso perduto".
Viceversa, la visione che abbiamo delle condizioni
di vita "primitive" è quella che ci hanno trasmesso
la maggior parte di antropologi: ""Una semplice economia
di sussistenza", "tempo libero limitato, salvo circostanze
eccezionali", "richiesta incessante di alimenti",
risorse naturali "magre, sulle quali si può riporre
una fiducia solo relativa", "assenza di eccedente economico"[...];
cosí si esprime, in generali, l'opinione antropologica nei
rigurdi della caccia e della raccolta."
"È possibile che quest'opinione sia uno dei più
chiari pregiudizi contro il Neolitico, un apprezzamento ideologico
sulle capacità del cacciatore di sfruttare le risorse della
Terra, fatto che sta molto in accordo col tentativo di privarlo
di questo bene. Abbiamo ereditato questo pregiudizio dalla discendenza
di Giacobbe, che si "disperse verso l'ovest, verso l'est e
verso il nord" ai danni di Esaú, che era il primogenito
ed un ingegnoso cacciatore, ed al quale, in una famosa scena, privarono
della primogenitura."
Per altro verso, sarebbe conveniente una visione
più lucida e realista rispetto alle meraviglie della nostra
civilizzazione occidentale: "Il sistema industriale e di mercato
istituisce la povertà in un modo che non si presta a confronti
e ad un grado che, fino ai nostri giorni, non si era mai raggiunto
neppure per approssimazione. Laddove la produzione e la distribuzione
si reggono in base al comportamento dei prezzi, e l'intera sussistenza
dipende dai guadagni e dalle spese, l'insufficienza di risorse naturali
si converte nel più chiaro e misurabile punto di partenza
dell'attività economica."
"La penuria costituisce il verdetto che la nostra economia
ha dettato, e per tanto è anche l'assioma che la regge: l'applicazione
di mezzi insufficienti davanti a fini antagonici per ottenere la
maggior soddisfazione possibile nelle circostanze date."
"Avendo attribuito al cacciatore impulsi borghesi e strumenti
paleolitici, giudichiamo la sua situazione disperata."
"Ci sentiamo inclini a pensare che i cacciatori-raccoglitori
sono poveri perchè non hanno niente; ma forse val la pena
pensare che per questo stesso motivo sono liberi. "I loro possedimenti
materiali limitati fino all'estremo gli evitano di aversi da curare
in alcun modo delle necessità quotidiane e gli permettono
di godere della vita (Gusinde, 1961).""
L'autore arriva paradossalmente alla sovversività:
"La quantità di lavoro (pro-capite) aumenta con l'evoluzione
della cultura mentre diminuisce la quantità di tempo libero."
"Ma soprattutto, cosa dobbiamo dire del mondo d'oggi? Si dice
che da un terzo alla metà dell'umanità se ne va a
dormire con fame. Nell'antica Età della Pietra la proporzione
doveva essere molto minore. L'epoca in cui viviamo è di una
fame senza precedenti. Oggi, nell'epoca del più grande potere
tecnologico, la fame è un'istituzione. Possiamo ribaltare
un'altra venerabile massima: la fame aumenta in termini relativi
ed assoluti con l'evoluzione della cultura.
"Questo paradosso corrisponde totalmente al
mio punto di vista. I cacciatori ed i raccoglitori hanno un basso
livello di vita per la forza delle circostanze. Però, considerato
il loro "obiettivo" e i loro mezzi di produzione ad esso
adeguati, possono di regola soddisfare facilmente tutte le loro
necessità materiali. L'evoluzione dell'economia ha conosciuto,
a partire da allora, due movimenti contradditori: l'arricchimento,
ma simultaneamente l'impoverimento, l'appropriazione della natura,
ma l'espropriazione in relazione all'uomo. L'aspetto progressivo
è senza dubbio tecnologico. Quest'ultimo si è manifestato
in molti modi: come un aumento dell'offerta e della domanda di beni
e servizi, della quantità di energia posta al servizio della
cultura, della produttività, della divisione del lavoro e
della libertà in relazione ai condizionamenti dell'ambiente."
"Le popolazioni più primitive del mondo
avevano scarsi possedimenti, ma non erano povere. La povertà
non è una determinata e piccola quantità di cose,
e neppure una relazione tra mezzi e fini, è soprattutto una
relazione tra le persone. La povertà è uno stato sociale.
E come tale è un'invenzione della civilizzazione. È
cresciuta con la civilizzazione, come gelosa distinzione tra classi
e, fondamentalmente, come una relazione di dipendenza che può
rendere gli agricoltori maggiormente soggetti alle catastrofi naturali
di qualunque accampamento invernale degli eschimesi dell'Alaska."
"Le economie primitive erano sottoproduttive.
Una gran parte di esse, tanto le agricole come le preagricole, sembra
che non sfruttino tutte le loro potenzialità economiche.
La capacità di lavoro è utilizzata in modo insufficiente,
i mezzi tecnologici non vengono usati pienamente e le risorse naturali
non vengono sfruttate". "La produzione è bassa
in relazione alle possibilità esistenti. Intesa in questo
modo, la sottoproduzione non è incompatibile con una primitiva
"opulenza"."
"Il "problema economico" si può
risolvere facilmente usando le tecniche del Paleolitico. Da cui
se ne deriva che solo quando la cultura si è avvicinata ai
vertici dei suoi esiti materiali, giunge ad erigere un altare all'Irraggiungibile:
le Necessità Infinite."
Questi riferimenti alla diversità umana nel passato e nel
presente, su come impostare l'economia, possono provocare una certa
nostalgia del paradiso perduto, un'ansia idealista di ritorno impossibile.
È questa la condanna d'Occidente: studiare, conoscere, comparare
altre forme di vita umana, sapendo che non si può tornare
indietro. Ma non tornare indietro non vuol dire però difendere
incondizionatamente tutto il presente come unico cammino di futuro.
Una delle cose che l'Occidente possiede davvero è la sua
volontà e capacità di modificare la storia in funzione
della progressiva presa di coscienza del fatto che esiste sempre
una diversità di opzioni.
Parallelamente a questa presa di coscienza della
"fragilità ed utopia dell'universalizzazione del progresso
e dello sviluppo senza fine", abbiamo bisogno di trovare cammini
che permettano riorientare, prima che sia troppo tardi, la direzione
suicida in cui abbiamo spinto la vita del Pianeta.
Da dove cominciare? Dalla coscientizzazione e dal cambiamento di
mentalità? Però in che modo, dal momento che i mezzi
di formazione, di comunicazione e d'informazione plasmano le coscienze
ed i valori della maggioranza degli abitanti del pianeta secondo
il modello occidentale dominante? Come poter liberare queste istituzioni
dalla dipendenza degli Stati e delle grandi imprese?
Se vogliamo cominciare dal cambiamento politico,
in che modo possiamo ottenere che le organizzazioni ed i partiti
politici non siano così condizionati da quelli che sostengono
le loro campagne elettorali?
Se vogliamo cominciare dal cambiamento economico, come poter superare
le crisi mentre la scienza economica sta procedendo a tentoni?
Se vogliamo cominciare dalla conversione interiore, come possiamo
raggiungerla finchè lo "spirito di libertà"
si trovi in gran parte imprigionato dalle istituzioni religiose
che servono il potere?
Se vogliamo cominciare dai cambiamenti ecologici
o dalle relazioni Nord-Sud, in che modo impedire che i grandi gruppi
di pressione e gli Stati con diritto di veto boicottino più
o meno apertamente tutte le decisioni che li danneggiano?
Possiamo formularci la stessa domanda in relazione ad un altro tema:
come possiamo cominciare un cambiamento del sistema monetario se
la moneta anonima attuale è un'arma sottile utilizzata da
tutti questi poteri di fatto per impedire quei cambiamenti che sarebbe
urgente avviare? Probabilmente, una delle differenze risiede nel
fatto che modificare il tipo di moneta lo si può fare con
un decreto-legge, in un giorno, e che a partire dalla sua introduzione
una nuova moneta informativa e responsabilizzante può contribuire
alla soluzione della maggior parte di difficoltà che abbiamo
appena esposto. Viceversa, cambiare una qualunque altra struttura
richiede processi molto complessi, lunghi e laboriosi. Arrivati
a questo punto, possiamo aver appreso dalla storia che qualunque
grande cambiamento rivoluzionario si trova alla fine bloccato da
altri grandi problemi irrisolti, ed avvelenato dall'anonimato della
moneta, che fa marcire nuovamente ogni cosa.
All'inizio del capitolo abbiamo affermato che la
modificazione dello strumento monetario era un'ipotesi più
positiva e fattibile delle altre due. Vediamo ora la sua fattibilità
sociale, e lasciamo quella tecnica per i prossimi capitoli. L'affermazione
secondo cui è più facile un cambiamento strumentale
(strumento per altri cambiamenti) che non un cambiamento diretto
di strutture complesse (si tratti di strutture economiche o politiche,
oppure di quelle, ancora più complesse, culturali-"interne")
è ancora un'ipotesi. Vale a dire che non è stata ancora
sperimentata consapevolmente fino ad ora, e da questo punto di vista
presenta dei vantaggi rispetto alle altre "rivoluzioni".
Questa proposta di riforma monetaria, di un cambiamento
strumentale, ha a suo favore il fatto che, a differenza di altre
rivoluzioni che esigono il cambiamento di abitudini ed istituzioni
che la maggior parte degli occidentali accetta come "normali"
(abolizione della proprietà privata, della democrazia parlamentaria,
delle libertà formali...), il cambiamento del tipo di moneta
non attacca l'esistenza di queste istituzioni, ma attacca invece
ciò che queste stesse istituzioni e l'opinione pubblica denunciano
come pericolo per lo Stato di Diritto: l'incapacità di lottare
contro la corruzione e la delinquenza; l'inefficacia del sistema
giudiziario; l'irresponsabilizzazione degli atti liberamente compiuti,
tanto nel mercato come nella politica; la diseguaglianza d'opportunità;
la redistribuzione economica insolidale; un fisco eccessivo e non
equitativo; la disinformazione manipolata; la mancanza di partecipazione
nei sistemi di presa delle decisioni politiche... Vale a dire che
il cambiamento di moneta può approfondire la tradizione democratica
e mercantile. Se l'uguaglianza giuridica e la libertà personale
sono proclamate formalmente, dobbiamo trovare i mezzi perchè
questi valori siano costretti a concretizzarsi nella maggioranza
delle situazioni.
Anche nell'Occidente socialista si potrebbe stabilire
un parallelismo d'ipocrisia sociale tra i diritti formali proclamati
ai quattro venti e la realtà. Ma al punto in cui sono arrivate
le cose non vale forse la pena. I fatti sono più eloquenti
delle analisi.
Forse dai due sistemi fino ad ora in conflitto potremmo trarre una
sintesi creativa che utilizzi gli elementi positivi di entrambi,
grazie, precisamente, alla possibilità offerta dal nuovo
tipo di moneta di autocontrollare gli accordi presi in comune in
una nuova Europa non divisa in blocchi nè in Stati-nazione.
Note:
1 TEMPLE, Dominique, Alternatives
au Développement, Centre Interculturel Monchanin, Montreal,
1988, p. 105.
2 Idem, p. 105.
3 Idem, p. 105.
4 SAHLINS, Marshall (1974), Economía de la Edad de la Piedra,
Akal Universitaria, Madrid, 1983, pp. 13-14.
5 Idem, p. 14.
6 Idem, p. 14.
7 Idem, p. 15.
8 Idem, p. 16.
9 Idem, pp. 16-17.
10 Idem, p. 17.
11 Idem, p. 27.
12 Idem, p. 50.
13 Idem, p. 51.
14 Idem, p. 52.
15 Idem, p. 55.
16 Idem, p. 53.
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